In questi giorni si sente parlare sempre più spesso di GPA, la gestazione per altri – spesso definita
anche maternità surrogata o utero in affitto, a dimostrazione di quanto le parole che utilizziamo
dicano di noi e delle nostre opinioni. Il tema è al centro delle cronache a causa della proposta di
legge, presentata da Fratelli d’Italia, di rendere questa pratica (già vietata nel nostro Paese) reato
universale. Il problema è principalmente questo: sono molte le coppie e i single che si recano
all’estero per effettuarla, e se questa proposta dovesse passare, queste persone potrebbero
essere processate, una volta rientrate. In questi primi anni post-pandemici, tra l’altro, la domanda
sembra essere aumentata a causa delle restrizioni che ne hanno impedito lo svolgimento:
significherebbe condannare un alto numero di persone per aver cercato un figlio là dove la
biologia e i percorsi di adozione (altro tasto dolente italiano) non sono arrivati.
Ma in cosa consiste la GPA? Si tratta di una modalità di procreazione assistita: una coppia (o una
persona singola) che non può avere un figlio si rivolge a una donna che affronti una gravidanza al
suo posto, per poi cedere il bambino. La GPA può prevedere sia che l’ovulo fecondato appartenga
alla donna che poi adotterà il bambino, sia che appartenga a chi porterà avanti la gravidanza.
Proprio perché in Italia non è permessa, chi desidera affrontarla recandosi all’estero deve mettere
in conto la possibilità di scontrarsi con numerose difficoltà burocratiche e leggi differenti da Paese
a Paese.
Infatti alcuni Stati permettono la maternità surrogata solo con ovulo della madre intenzionale
(ovvero la donna che poi crescerà il bambino), altri garantiscono libertà nelle modalità di
applicazione. Siamo abituati a riconoscere situazioni analoghe nelle sitcom made in USA, in
particolar modo con protagoniste coppie gay pronte ad adottare il figlio partorito da un’amica
(anche se, va detto, la GPA è scelta da moltissimi eterosessuali). Gli States sono infatti uno dei
Paesi in cui è permessa – anche se non ovunque – e ci sono agenzie che ne regolamentano lo
svolgimento e che mettono in contatto i genitori intenzionali con la donna che porterà avanti la
gravidanza e i rispettivi avvocati, per garantire tutela, sicurezza e volontarietà.
L’aspetto più controverso però riguarda – come spesso purtroppo accade – una questione
economica: in alcuni dei Paesi del mondo in cui è permessa, le gestanti ricevono un rimborso delle
spese in cui sono incorse durante la gravidanza, mentre in altri possono richiedere un compenso,
anche molto alto. In questo secondo caso il pericolo è che questa pratica si trasformi in un’attività
puramente commerciale, mettendo a rischio donne in difficoltà e bisognose di denaro che hanno
come unico mezzo di sostentamento il proprio corpo. Una situazione realistica soprattutto dove la
GPA non è ben regolamentata, come spesso accade in Paesi a più lento sviluppo. Global Market
Insights, società che si occupa di consulenza per ricerche di mercato, ha comunicato che l’industria
globale della GPA commerciale ha raggiunto un valore di 14 miliardi di dollari nel 2022, con una
previsione di crescita fino a 129 miliardi nei prossimi dieci anni. Numeri che chiedono a gran voce
una seria riflessione su dove permetterla e a quali condizioni.
Un altro aspetto delicato è quello che riguarda il patrimonio genetico del bambino, che può essere
della madre adottiva come di quella biologica: nonostante i casi di GPA non portati a termine
sembrino essere pochissimi, la maggior parte ha visto protagonisti casi di ovulo di proprietà della
gestante, che ha poi deciso di non separarsi dal figlio.
Il tema è complesso da affrontare, ma gli studi pubblicati a riguardo fino a ora non mostrano
particolari problemi incorsi né durante la gestazione e l’adozione dei bambini, né nel corso della
loro crescita: forse sarebbe una buona idea prendere esempio da chi ne sa più di noi, come gli
States?
DIETRO AL BUSINESS DELL’UTERO IN AFFITTO