Respiratori, macchinari per le mammografie, bisturi, siringhe e camici. Oltre 1 miliardo di euro da «rimborsare» alle Regioni. Da quando nel 2015, nell’ambito della spending review richiesta dall’Unione Europea, il governo Renzi (ministro della Salute era Beatrice Lorenzin) introdusse la norma, il «payback sanitario» è una spada di Damocle che pende sulla testa di un intero comparto, quello della fornitura e della distribuzione dei dispositivi medico sanitari. E che minaccia di inferire un colpo mortale a un Servizio sanitario pubblico già pesantemente provato dalla riduzione della spesa e degli investimenti pubblici.
Da Renzi a Draghi, da Draghi a Meloni
Mai applicata e passata di mano in mano per quattro governi, la patata bollente del payback sanitario è infine toccata al governo Draghi, che l’ha attuata nell’estate 2022 con il Decreto “Aiuti bis”. Da allora, di proroga in proroga, aziende e lavoratori alternano sospiri di sollievo alla speranza in un ulteriore rinvio del termine di pagamento. Il 16 giugno con un emendamento al Dl “Enti” la data è slittata dal 30 giugno al 31 luglio. A partire da quel giorno, le aziende che forniscono dispositivi medici al servizio pubblico dovranno pagare complessivamente 1,1 miliardi, «concorrendo al ripianamento del superamento del tetto di spesa regionale» per gli acquisti del quadriennio 2015-2018.
Il 27 giugno il tavolo tecnico convocato dal ministero
La scadenza, in principio, era il 30 aprile e i miliardi erano 2,2, ma con il Dl “Bollette” del 30 marzo il governo in carica ha deciso di dimezzare l’entità del contributo richiesto, chiedendo in cambio alle aziende di rinunciare ai ricorsi presentati ai Tar. Il 27 giugno il ministero della Salute convocherà un tavolo tecnico-ministeriale con l’obiettivo di discutere insieme alle parti le criticità di questa norma. Intanto, la proroga al 31 luglio non cancella alcuna perplessità. «Potrebbe trattarsi di un modo per prendere tempo in vista di una cancellazione del payback - spiega Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria dispositivi medici - o semplicemente di un mese in più concesso alle Regioni per motivi tecnici».
LE MISURE
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Confindustria: «I distributori eviteranno le gare pubbliche»
Per Boggetti, e per tutte le aziende del settore, il problema resta: se il mercato dei dispositivi medici vale 6 miliardi di fatturato l’anno, la richiesta di versare oltre 1 miliardo nelle casse delle Regioni non può che generare un effetto valanga sull’intero sistema. «Si va incontro al fallimento di almeno un migliaio di imprese», avverte, «chiuderanno tutte quelle realtà più piccole che si trovano a valle della filiera, cioè i venditori, i distributori». A monte si collocano invece i produttori, italiani e stranieri, che subirebbero in misura minore l’impatto del payback ma che, inevitabilmente, risentirebbero della compressione del mercato.
Il rischio di avere tecnologie e strumenti obsoleti
Si assisterebbe, in buona sostanza, a una fuga degli investimenti a beneficio di contesti più attrattivi, con conseguenze disastrose anche per il Ssn e l’accesso universalistico alle cure. Le strutture pubbliche avrebbero, infatti, non solo un problema di approvvigionamento di dispositivi essenziali, moderni abbastanza da funzionare correttamente, ma anche di manutenzione, di formazione sull’utilizzo dei macchinari. «E i medici? Quanti rimarrebbero nel servizio pubblico a lavorare con tecnologie obsolete, con tutti i rischi che questo comporta?» si chiede il presidente confindustriale.
Le incongruenze del payback sanitario
La norma payback contiene poi un’altra peculiarità. Sul disavanzo dei bilanci regionali viene fatto un calcolo complessivo, senza distinzioni tra le voci di spesa: questo significa che chi produce o distribuisce bisturi chirurgici, ad esempio, è chiamato a risanare uno sforamento del tetto di spesa causato da un eccesso negli acquisti di valvole cardiache. Aspetto, giudicato quantomeno controverso, che impedisce alle aziende fornitrici di fare previsioni sulle spese da sostenere e dunque sulla redditività. Se si considera che le gare bandite a livello regionale riguardano forniture pluriennali (solitamente tra i 5 e i 7 anni), le conseguenze sono facilmente immaginabili, conclude Boggetti: «Per sfuggire alla trappola del payback, i distributori smetteranno di partecipare alle gare pubbliche e orienteranno le vendite verso l’estero, o verso i privati». Considerazioni che suonano familiari, per usare un eufemismo, a tante delle 1500 aziende che distribuiscono in Italia.
Il caso ab medica: «Fino al 2026 non resistiamo»
Insieme alla proroga al 31 luglio, un secondo emendamento al Dl Enti ha introdotto la possibilità di rivedere, entro il 2026, la gestione della spesa dei dispositivi medici. «Ma fra tre anni o ci saremo reinventati, distribuendo all’estero, o avremo ceduto l’azienda a un fondo». Francesca Cerruti, ceo di ab medica, è netta nel chiedere la cancellazione della norma. Sulla sua azienda l’impatto del payback supererebbe il 20% del fatturato. «Per il quadriennio 2015-2018 dovremmo pagare 19,8 milioni di euro e per il quadriennio successivo non abbiamo idea di quali potrebbero essere i costi».
Ab medica, che negli ultimi anni è diventata anche piccola produttrice, resta soprattutto impegnata nella distribuzione, che per il 70% è destinata al Ssn e per il restante 30 ai privati, inclusi quelli convenzionati con il sistema pubblico. Tra i fornitori da cui ab medica si approvvigiona si contano oltre 40 soggetti esteri. «Fatta eccezione per qualche eccellenza italiana, i produttori in questo settore sono per lo più stranieri. Sono ben consapevoli della qualità della rete di distribuzione italiana ed è anche grazie a questo che la nostra sanità gode di certe eccellenze elettromedicali». Il rischio, osservato da chi conosce nel dettaglio la filiera, è che le multinazionali attendano il fatidico 2026 per decidere se rientrare o meno nel mercato e che, nel frattempo, decidano di chiudere le proprie filiali italiane. «I tagli al personale esistono già - sottolinea Cerruti - E una filiale è a tutti gli effetti un’azienda italiana, che ha un proprio amministratore delegato e fino a 150 dipendenti sul territorio».
Si salveranno, insomma, gli operatori stranieri capaci di rivolgersi altrove e investire lontano dall’Italia. Ne beneficerà la sanità privata, su cui convergeranno prodotti d’eccellenza e personale medico in fuga dal pubblico. Le banche e le istituzioni finanziarie saranno chiamate ad aprire linee di credito a tassi agevolati, in favore di aziende che altrimenti fallirebbero: al tavolo del 14 giugno, col ministero della Salute, erano presenti i rappresentanti di Abi e Sace. Ma scaduto il termine e in mancanza di soluzioni adeguate, ci perderanno tutti gli altri: aziende, professionisti, cittadini. In un paese in cui, oggi, la spesa pro capite in dispositivi medici è circa la metà rispetto alla media europea.